E’ vero, il nostro non è un Paese per i giovani
Ritorno sui temi che hanno più rilevanza mediatica in questi giorni che compongono ormai una strana estate. Sappiamo tutti perché. Eppure pare non sia possibile dare una guida seria, o almeno tentare seriamente di farlo, alla comunità italiana. In fondo ce lo meriteremmo, o no?
Gli slogan si sprecano. Le battute e contro battute anche. Conta la pancia e quanto la pancia fa esprimere sui social, quali che essi siano. Al di là dei cosiddetti siparietti che era facile prevedere dopo il rinnegamento di un governo sicuramente di emergenza ma autorevole e fattivo, ci troviamo a poco più di un mese dalle fatidiche elezioni, da qualcuno continuamente invocate, con i problemi generali e particolari che si aggravano secondo un modello che io definisco glocal, mentre i candidati a guidarci stanno offrendo scene aperte e non nascoste che dire vergognose è dir poco. E senza distinzione di parte.
Io credo che nel 2022 stare ancora a distinguere le cose tra destra e sinistra non abbia più importanza. Torna il centro? Ma che senso ha se al centro, ritenuto moderato, si posizionano dei veri estremisti di potere? Non tanto per idee, ma per i comportamenti dettati dalla personalità narcise che possiedono.
Metà degli elettori non vanno più a votare da tempo. I segnali chiari di disaffezione sono antichi. Più che disaffezione è un vero sentimento di rassegnazione-disgusto-rifiuto. E’ quello che anche io provo. Con l’uscita di scena del governo cosiddetto tecnico (in realtà c’è ancora e ci sta tenendo a galla) io ho provato una grande rabbia per come siamo fatti tutti noi, giacché dagli errori non impariamo mai, anzi continuiamo a farne di peggiori, rabbia che in qualche modo ho manifestato nei miei due scritti precedenti di luglio. Ma oggi provo disgusto. Mi viene in mente quell’immagine tipica del neonato che a fronte di qualcosa di non gradito, in modo inconsapevole fa vedere con le smorfie del viso la propria contrarietà emotiva. Mi sento così.
C’è una speranza? Sì infatti è l’ultima a morire. E così cerco di superare il senso di disgusto.
Pare si siano formati, dopo i continui svarioni di questi giorni, tre poli non certo innovativi ma regolati dalle indicazioni di voto potenziale (sondaggi), quindi non liberi ma condizionati dai pressing mediatici che non sono certo indipendenti. In base alle categorie del 18° secolo nascenti dalla rivoluzione francese (1) c’è una destra composta da tre formazioni politiche tendenzialmente conservatrici di privilegi e bravissime a “raccontarci” i valori popolari nonché a fingere unità d’intenti. Che dire? Fanno il loro lavoro e sono veramenti bravi a fare marketing, niente da aggiungere. A parte il disgusto. C’è una sinistra che non sa ben comunicare e che non è mai riuscita ad impostare un percorso attrattivo di bene comune. Anzi è sempre stata, nonostante le esperienze vissute, bravissima a frammentarsi (2), a mettere i puntini sulle tante “i”, creando le condizioni perché le buone intenzioni, pur presenti, restassero soltanto verbalizzate. Da quanto vedo nella mia realtà non c’è da tempo neanche la volontà di provare a guardare nella stessa direzione. Le formazioni di questa parte fanno ormai capo ad unica squadra che pare detenga un interessante impatto elettorale. Ma personalmente ho seri dubbi sulla sua attuale e reale attrattività. Nient’altro da aggiungere, a parte l’irritazione consolidata. Infine c’è la novità di un centro che nasce per puro calcolo di convenienza e che è il mettersi insieme di narcisi nostalgici dei fornai (nota metafora di andreottiana memoria), personaggi il cui ego smisurato li pone nelle condizioni di chi vuole essere unico al comando. Non intravedo moderazione in queste aggregazioni, soltanto la sfrontata voglia di emergere e di prevalere. E di non perdere il posto. Si badi bene l’impatto complessivo potrebbe valere meno del 10%. Certo che frequentare distinti fornai potrebbe essere decisivo, come nella nostra prima repubblica. E in tal caso chiedo scusa a chi il fornaio lo fa di mestiere. Non c’è altro da aggiungere, a parte il fastidio profondo. (3)
Le domande che mi pongo e che spero si pongano le persone sono due: perché dovrei andare a votare? E perché dovrei votare uno dei tre poli?
Anche io, stando a quanto successo finora, me ne resterei a casa. Ma penso che il diritto di votare che ancora la Costituzione ci riserva non vada ulteriormente vanificato. E’ troppo importante. Chi ha esperienza di “condominio” sa quanto poco divertente sia partecipare alle assemblee condominiali, ma quando ci sono i problemi comuni – anche quelli meno importanti – è più utile fare la propria parte, confrontarsi, dire il proprio pensiero e esprimere un voto, anziché lamentarsi in ascensore con il primo che passa. E’ importante e determinante partecipare. Il nostro Paese è un grande condominio che non riesce ad esprimere un amministratore stabile, serio ed autorevole. Se poi ce n’è uno di serio ed autorevole lo facciamo andare via. Come succede spessissimo in molti condomini. Dunque, è importante andare a votare. E al momento non ci resta che questo.
Alla seconda domanda non so al momento rispondere.
Tornando alla speranza tirata in ballo in precedenza, dico solo questo: è vero il nostro non è un paese per i giovani. Nessuno se ne sta occupando e soprattutto nessuno evidenzia una strategia di cambiamento che passi attraverso un autentico ascolto delle giovani generazioni e un loro coinvolgimento che non sia solo di facciata come avvenuto spesso sinora.
Immagino che, tenuto conto dei tempi stretti per andare a votare, la competizione elettorale si limiti ad essere una partita per la conquista di seggi. Quindi di spartizione di potere. I contenuti, i programmi, gli orientamenti saranno proclamati successivamente.
La polarizzazione di oggi è complicata dalla presenza di altre formazioni che parrebbero emarginate nello scenario attuale, pur essendoci tra esse forze che hanno governato negli ultimi quattro anni. E ce ne sono altre residuali, troppo residuali, che non facilitano una ricomposizione.
Mi aspetto, ed è una speranza, che almeno da una delle formazioni in campo arrivino seri segnali di programma da sottoporre al giudizio dei cittadini. Pochi, ma veri e fattibili. Chiari e leggibili. D’accordo gestire ed affrontare le varie emergenze che stiamo vivendo – dal clima alle priorità sociali, dal lavoro ai diritti – ma soprattutto costruire una idea di futuro per le nuove generazioni.
Io sarei per un “facciamolo”. Ma questi sono i rappresentanti che abbiamo. Ad alcuni di loro dico: “almeno proviamoci”.
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Titolo e rriferimenti nel testo: presi in prestito dal film di Giovanni Veronesi, Non è un paese per giovani del 2017
Immagine: by Pexel – foto di Sarah Chai
Nota (1): da Treccani Enc. – Fu la Rivoluzione francese a introdurre la distinzione tra quelli che sono diventati i tre punti di riferimento convenzionali dei sistemi politici contemporanei: destra, sinistra e centro. Nel maggio 1789, riunitisi gli Stati generali, i membri del Terzo stato si divisero nell’emiciclo: i conservatori si accomodarono a destra, i radicali e i rivoluzionari a sinistra. Il centro dell’emiciclo fu invece connotato polemicamente come ‘palude’, in quanto spazio indistinto e senza identità
Nota (2): da Il Foglio – Giuliano Ferrara: Molte liste, molto onore. I liberali, specie in Italia, convertono il loro innato individualismo in tribalismo. Allo stato un raggruppamento va con il Pd, uno raccoglie firme, un altro va da solo. Le tribù sono società tendenzialmente chiuse, si muovono secondo la eco o il brusio degli umori prevalenti, scartano per via delle affinità e delle idiosincrasie ululanti, oggi sono correnti di Twitter e decidono per ordalia televisiva, con noti ondeggiamenti. Va bene, pazienza, è un dato di cui tenere conto. D’altra parte si tratta spesso di persone intelligenti. Purtroppo questo stato caratteriale ha segnato sempre di sé la storia politica della Repubblica, confermando il minoritarismo di idee e proposte che per altri versi hanno accompagnato e segnato la modernizzazione e il riformismo, rimasti saldamente nelle mani di democristiani, comunisti e socialisti, universi in qualche caso viziati da bacchettonismo, sentimentalismo o totalitarismo, ma non tribali. Le correnti o il centralismo democratico sono stati formule organizzative e politiche spesso patologiche ma compatibili con una certa coesione identitaria e popolare, almeno finché è durata la stagione dei partiti politici.
Nota (3): che c’entrano i fornai con il nostro discorso? C’entrano i forni in realtà come spiega ancora la Treccani Enc.: Giulio Andreotti, quando si ritrovò a commentare, a distanza di anni, la fase storico-politica degli anni Sessanta, caratterizzata dalla centralità della Dc, scrisse che egli fu artefice dell’idea che in quel momento il suo partito, per acquistare il pane (cioè fare la politica più congeniale ai propri interessi alleandosi con altre forze), dovesse servirsi di uno dei due forni che aveva a disposizione, a seconda delle opportunità: il forno di sinistra (socialisti), il forno di destra (liberali, eventualmente anche i missini).